Roscigno Vecchia: il paese fantasma che cammina sul tempo


Roscigno Vecchia, nata come un borgo di pastori e greggi in transumanza, è adagiata sulle pendici occidentali del monte Pruno e all’interno di una quieta valle solcata dai fiumi Sammaro e Ripiti. Ci troviamo nel cuore del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, a circa 90 km da Salerno. È borgo fantasma a partire dagli inizi del ‘900, da quando due ordinanze del Genio Civile (1902 e 1908) stabilirono lo sgombero del paese e la costruzione di nuove case più a monte, lì dove oggi sorge Roscigno Nuova; l’antico borgo si spopolò lentamente ma non fu mai del tutto abbandonato, grazie a una donna che sola continuò ad abitarlo: Dorina, al secolo Teodora Lorenzi (qui una foto), smise l’abito talare “per pregare meglio Dio nella natura del Cilento” e tra le mura del suo paese natìo, dove ha vissuto fino alla morte avvenuta nel 2000: per questo il suo nome sopravvive ancora come simbolo della resistenza all’abbandono (qui un servizio di Geo&Geo RaiTre).

Quello novecentesco è solo l’ultimo dei tanti spostamenti che il borgo ha dovuto subire, già dal ‘500, a causa degli smottamenti e delle frane dovute alla natura argillosa del suo terreno; per tale ragione è stato definito “il paese che cammina”. Roscigno Vecchia, nota anche come “la Pompei del Novecento” (in concorrenza con Apice vecchia) e inserita nella lista dei siti Patrimonio Unesco, conserva inalterati i tratti di un centro agro-pastorale del ‘700-‘800: case, granai, stalle e botteghe, ne fanno uno straordinario museo a cielo aperto della civiltà contadina meridionale. Deliziosa e poetica è l’origine del suo nome che deriva dal termine dialettale “russignuolo”, ovvero usignolo, il cui canto si ode ancora tra i tigli e i platani secolari che svettano altissimi nell’ampia piazza principale. È da qui che ha avuto inizio la nostra esplorazione.

ALTRE DERIVE – La piazza suscita una fortissima impressione. Il suo spazio è enorme, irregolare e privo di selciato; ciò la fa piacevolmente assomigliare più ad una prateria che a una piazza. Tutt’intorno si affiancano e mescolano memorie di ogni epoca: la chiesa madre, le case restaurate, pericolanti e in rovina, dei contadini e dei proprietari terrieri, la fontana abbeveratoio-lavatoio, l’insegna del Bar Roma (1946), gli scheletri di vecchi olmi secolari, il Museo della civiltà contadina, gli orti e le stalle per le vacche appartenenti agli odierni roscignoli.

Il nostro stupore si raffredda con l’amara constatazione che la piazza è intitolata a Giovanni Nicotera, ambigua figura del Risorgimento italiano: da compagno di Mazzini, Pisacane e Garibaldi finì per diventare ministro dell’interno per ben due volte, nemico del Socialismo e della Rivoluzione; su di lui gravano inoltre i pesanti e fondati sospetti di essere la spia della spedizione di Sapri e colluso con la camorra salernitana. Un grave insulto (non il solo purtroppo) ai danni di questa terra e dei suoi abitanti, e della loro memoria.

Con passi e toni sommessi, in accordo e ossequio alla natura silente del luogo, ci avviciniamo all’elegante chiesa settecentesca di San Nicola di Bari, ricostruita completamente a seguito di un incendio divampato la notte di Natale del 1774. L’accesso alla chiesa è sbarrato dall’imponente portone, che ferma il passo ma non lo sguardo; attraverso la fessura centrale si riesce infatti a scorgere quel poco che rimane al suo interno: l’altare spogliato dei marmi, stucchi e affreschi.

 

Lasciata la chiesa ci addentriamo fra le strette viuzze immerse nella rigogliosa vegetazione che invade anche l’interno di molte case, ormai abitate soltanto da una grande varietà di piante: gli ambienti sono totalmente spogli, solo alcuni conservano gli intonaci dipinti alle pareti; restano soprattutto le travi dei solai e pochissimi oggetti della presenza umana. La tipologia è quella tipica delle case contadine del Cilento interno: piccole dimensioni e mura di pietre legate con malta e sabbia, sormontate da un tetto di tegole in terracotta. Il piano terra fungeva da stalla, cantina, deposito e bagno; al primo piano si apriva una sola stanza da letto e la cucina con camino. In cima la soffitta, adibita alla conservazione e all’essiccazione di alimenti.

 

Percorrendo la via che si dirama a meridione della piazza notiamo una singolare e antichissima lapide, risalente al 1587, che sopravvive inserita nelle mura decadenti di un edificio: scolpite nella pietra due mani srotolano un cartiglio, all’interno del quale è incisa un’iscrizione latina che testimonia l’edificazione di una cappella dedicata a San Giovanni Decollato, di cui però non resta più nulla. In fondo alla via si trova il minuscolo cimitero dove alti pini fanno ombra a pochissime lapidi e croci che spuntano dal terreno.

 

Torniamo nella piazza dove è improvvisamente apparsa una stravagante figura in cui riconosciamo subito Giuseppe Spagnuolo, noto per essere l’ultimo abitante di Roscigno Vecchia, nonché suo guardiano e memoria storica: siede sotto il tiglio fumando la pipa, riempita di foglie di carciofo essiccato e altre erbe. Sotto l’ampio ed eccentrico cappello spuntano due grandi occhi arzilli, i capelli lunghi e la grande barba bianca dalla quale fuoriesce una voce accogliente e loquace; in men che non si dica Giuseppe inizia a raccontarci la sua storia e quella del suo paese. Ci dice che ama definirsi un libero abusivo poiché occupa da circa vent’anni una casetta del borgo; dopo una vita da emigrante trascorsa a lavorare in giro per l’Italia e il mondo, ha infatti deciso di tornare nella sua terra d’origine per crearsi un nido a Roscigno Vecchia, di cui conosce ogni anfratto e vicenda.

Ci racconta dei 20.000 turisti l’anno, dei tanti milioni di euro di finanziamenti dell’Unione Europea (dal 2000 ad oggi pare siano piovuti dai 5 ai 12 milioni di euro di fondi UE, dei quali sono accertati 999mila destinati alla “messa in sicurezza del centro storico” e 481mila al restauro di “un edificio del borgo rurale”) finiti in gran parte nelle tasche di politici locali e in misera parte nella pessima ristrutturazione di alcuni edifici; dei tanti film e documentari, sia italiani che internazionali (tra questi addirittura una TV giapponese e il National Geographic), girati a Roscigno Vecchia. E ci racconta anche della sua straordinaria collezione di cappelli e cravatte, di ogni tipo e colore, ricevute in dono da coloro che passano a trovarlo; delle sue giornate trascorse a far da cicerone ai visitatori, della sua vita senza telefono e della sua umile dimora nella quale ci invita ad entrare: Giuseppe vive in due stanze, una modesta cucina dotata di un piccolo fornelletto e di un minuscolo camino, e una camera da letto nella quale sono sparse ed ammassate fotografie che lo ritraggono e articoli di giornali che parlano di lui; pile di libri e vestiti, di cravatte e cappelli, in mezzo alle quali è sistemato il suo giaciglio. Notiamo una grande busta di croccantini per gatti, suoi amati compagni di vita.

 

Il tempo vola in compagnia di Giuseppe, che salutiamo calorosamente ringraziandolo per l’accoglienza e i racconti. Desideriamo infatti godere del crepuscolo sedendo nella piazza e nel suo silenzio; ma il silenzio è presto interrotto dal suono di campanacci e zoccoli: la visione di un piccolo gregge di vacche, che attraversa lentamente la piazza per poi scomparire a valle, ci rincuora del fatto che l’antico incanto generato da questo luogo si rinnova ogni giorno. Testarda e caparbia, umile e silenziosa, come le donne e gli uomini che l’hanno fondata e abitata (e che continuano ad abitarla) Roscigno Vecchia continua a vivere fedele a sé stessa e alla propria intima natura.

Serena Mangione e Claudio Focarazzo
Ricercatori ed esploratori di luoghi remoti
Progetti:
Il cammino materano
In Itinere


Categoria: borghi e insediamenti
Tipologia: paese fantasma
Stato: diroccato
Zona: Parco del Cilento/Vallo di Diano e Alburni
Raggiungibilità: in auto
Accessibilità: semplice, libera
Visita: da evitare edifici pericolanti
Durata: 2-4 ore

Condividi su: