Resti d’archeologia (industriale): le grotte di via Posillipo


Il sottosuolo di Napoli è tra le maggiori attrazioni turistiche della città, e a ragione: dagli acquedotti, catacombe e ipogei di origine ellenica e romana del centro antico, fino alla galleria borbonica sotto il Monte Echia, che conserva traccia di almeno cinque stagioni storiche, il patrimonio archeologico nascosto sottoterra è immenso. Per non parlare della grotta di Seiano, un tunnel lungo quasi 800m e scavato nel tufo ormai 2000 anni fa, in epoca romana, che conduce nel parco archeologico del Pausilypon: un’ampia nicchia naturale a picco sul mare dove giacciono una villa imperiale e un teatro, insieme ad altri resti dell’antichità classica. Tesori culturali, questi, ormai divenuti celebri. Ma nessuno, o quasi, ha mai sentito parlare delle grotte di via Posillipo.

Ebbene sì: su questa strada panoramica del quartiere più altolocato di Napoli, a poca distanza da popolarissime gelaterie e forni, nonché dalla costa e dal mare, si nascondono tra i palazzi le grotte di via Posillipo. Originariamente erano cave per l’estrazione del tufo, anch’esse di probabile origine romana, ma che nella seconda metà del secolo scorso hanno ospitato, entro una sorta di ‘ventre naturale’, diverse aziende e opifici, depositando così accanto ad un sito d’interesse archeologico anche numerosi relitti di archeologia industriale.

Ad aprirci i lucchetti e i cancelli d’ingresso, impolverati e arrugginiti perché rimasti chiusi per mesi, sono stati il commercialista e il liquidatore che hanno in gestione quest’area dismessa, e che gentilmente ci hanno accompagnati e riccamente informati durante la visita. Di fatto, entrando ci si ritrova subito ad attraversare un’altissima conca, in fondo alla quale, fin da lontano, si intravede una vecchia e impolverata Fiat Seicento. Non così vecchia, però, quanto le automobili che – ci raccontano i nostri accompagnatori – vennero parcheggiate proprio tra queste grotte, dopo aver fatto parte del corteo organizzato nel 1938 in occasione della visita napoletana di Hitler.

 

Neanche il tempo di una smorfia di stupore, ed ecco che dietro di noi notiamo, nell’ombra, delle statue: un angelo e due leoni. No, nulla di insolito: l’edificio alle spalle, sorvegliato dalle tre sculture, ha ospitato fino al 2006 una fonderia artistica, l’ultima attività che ha chiuso definitivamente la variegata storia industriale di questo luogo, durata più di mezzo secolo. Con la cautela espressamente richiesta (eppure ne abbiamo visti di posti ben più pericolanti!) ci addentriamo all’interno della fonderia.

Tra le officine e gli altri locali di questo piccolo opificio si lasciano notare soprattutto i cospicui cartelli e segnali affissi a tutela della sicurezza dei lavoratori, in virtù dei diversi fattori di rischio come schegge ed emanazioni tossiche. Ma tra queste stesse mura, prima che le cave ospitassero una fonderia, dal 1955 al 1964 furono operative le officine meccaniche della Compagnia Italiana Dragaggio, adibite alla “costruzione e riparazione di macchine edili” e alla costruzione di “draghe industriali escavatrici”, come si legge anche sul sito ufficiale delle grotte di via Posillipo.

In verità, la documentazione storica relativa a questo sito parte dagli anni della seconda guerra mondiale: nel 1942 l’immobile fu acquisito dalla Società Anonima Napoletana Industrie Belliche (SANIB), sostituita l’anno seguente dall’Industria Meccanica (SANIM) che, soprattutto con la fine della guerra, cessò la produzione di armi e si dedicò alla “produzione di pezzi di ricambio per macchinari” e alla “costruzione di navi e galleggianti”.

 

L’edificio antistante, curiosamente incastonato nella roccia tufacea, ai tempi della SANIM servì come dormitorio del guardiano, prima di divenire uno spogliatoio per gli operai. Dopo averlo rapidamente visitato, ci addentriamo nelle cave, passando quindi dall’archeologia industriale ad un’archeologia quasi speleologica.

Anche se la cronologia documentata di queste grotte non fornisce dati antecedenti al 1942, si può dedurre che i primi scavi vadano fatti risalire persino all’antichità romana, se non altro per assimilazione con altri siti di Napoli – una città che Walter Benjamin nel 1924 definì “porosa” proprio in virtù della prevalenza di pietra tufacea. L’intreccio e le forme delle ampie cavità sotterranee replicano senza dubbio la maestosità di una cattedrale scolpita nella roccia naturale.

 

Lungo le pareti delle cave si notano diverse fenditure verticali: fin dai tempi antichi erano utili per le opere meccaniche di scavo della roccia, che avveniva infilando nella pietra cunei di legno dilatati con infiltrazioni d’acqua. Nel mezzo di una galleria, su un lato è visibile un foro che affaccia in un bunker antigas risalente alla seconda guerra mondiale. Al suolo giacciono accumulati i rottami di stampe, presse ed altri strumenti della fonderia, mentre più in alto si notano i resti degli impianti elettrici che alimentarono e illuminarono le fabbriche oggi dismesse.

L’impressione è che le molteplici stratificazioni della storia impreziosiscano la suggestività di questo luogo, che con la sua superficie di 4.720 metri quadrati risulta attualmente sul mercato per investimenti, nella speranza di una riqualificazione che lo possa riattivare, o almeno restituire agli occhi dei napoletani e dei turisti e inserire tra i patrimoni archeologici della città.

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