Ritratto d’epoca: gli ultimi abitanti di Torre Caselli


NAPOLI, OGGI – Si prenda un momento qualsiasi della giornata. Poniamo che si transiti in auto lungo Cupa Imparato, anonima salita che fa da svincolo d’uscita per la zona ospedaliera. O si sfrecci sull’adiacente stradone, via Michele Pietravalle, fiancheggiando il Cardarelli. Si passa di fretta, nel traffico, tra clacson e sirene. Neppure si fa caso, sulla destra, ad una villa agonizzante, di un rosso pompeiano scolorito, grattugiato: in pochi secondi si lascia alle proprie spalle, senza saperlo, una residenza settecentesca che sta sparendo lentamente, non solo dalla memoria e dagli sguardi dei cittadini, ma anche dalla geografia urbana di Napoli. Ogni giorno perde un pezzo di intonaco, e del suo nome: la villa Torre Caselli. La targa del portone rimanda ad un antico casato nobiliare: i Caselli, che nel Settecento adottarono questa villetta come dimora rurale di famiglia, quando i Colli Aminei erano nient’altro che un paesaggio di campagna su un’altura. All’alba del 2021, l’edificio è ormai lo spettro consunto e ricurvo di quell’elegante residenza spalleggiata da una torre, che le concedeva le arie di un castelletto.

Foto di Derive suburbane (2020)

Ora, poniamo il caso che qualcuno decida di accostare e scendere dall’auto, e fare un giro intorno all’edificio: scoprirà un comodo varco nei giardini, riuscirà persino a fare capolino all’interno sbirciando da una finestra. Ma non vedrà altro che immondizia, detriti e pareti annerite, forse da un incendio, come quello che dall’altro lato della città ha devastato Villa Ebe. Poi sentirà delle voci, scorgerà panni stesi a un filo, capirà che qualcuno ha trovato qui rifugio, e per rispetto o timore tornerà sui suoi passi e andrà via.

Foto di Manuel Moscariello (2018)

“Degrado” è l’accusa che si legge da dieci anni tra i lamenti mediatici confezionati per i lettori della ‘Napoli bene’. Senza dubbio si tratta di degrado, ma solo perché un frammento di architettura locale sta crollando. E perché è divenuto una piccola discarica abusiva. Non di certo perché questo rudere abbandonato dalle istituzioni ospita ad oggi quattro o cinque bisognosi di un riparo e di un tetto. Come, d’altronde, questa casa – e sì, una villa non è solo un vanto monumentale, ma è prima di tutto una dimora – era da tempo abituata a fare: il passato recente racconta diverse storie di transito, di ospitalità, di condivisione.

L’ALTRO IERI – La villa Torre Caselli, nell’ultimo trentennio del Novecento, è stata meglio conosciuta con il nome non ufficiale di Villa Berté. Passaggi, scambi, relazioni erano pane quotidiano in questa residenza: essa divenne il circolo culturale di Antonio Berté, che vi invitava continuamente celebri intellettuali e artisti dell’epoca. Nel 1969 il pittore napoletano aveva preso l’immobile in affitto dai Marchesi Caselli allo scopo di farne il proprio studio d’arte. Poco dopo divenne la sua abitazione e vi si stabilì insieme alla moglie Livia, che qui collocò anche la sede della scuola materna Apollo 11. Durante gli anni d’oro della Villa Berté, il pittore non disdegnò di ospitare anche bisognosi, come fece dopo il terremoto del 1980.

Bambini e adulti, semplici ed eruditi popolarono per un ventennio Villa Berté in modo libero e condiviso, connotandola come uno spazio collettivo. Tanto più quando i coniugi si trasferirono altrove, e la villetta conservò solo la funzione di studio d’arte, fino alle soglie degli anni Novanta. Dopo un ultimo breve passaggio di proprietà, sembrerebbe che la villa sia rimasta disabitata e da allora le notizie ufficiali scarseggiano.

IERI – Ebbene, grazie ad una testimonianza diretta di un ex abitante della casa, al mosaico delle transitorie fasi abitative della villa Torre Caselli si aggiungono ulteriori elementi: nel 1993 l’edificio fu occupato e in poco tempo divenne una comune, in cui per diversi anni convissero più famiglie. Dopo oltre un decennio l’immobile fu sgomberato e quindi acquisito da un unico proprietario, ma presto finì sotto sequestro giudiziario e si avviò verso il decadimento.

Il racconto di questa coabitazione più che decennale è il frutto dei vivi ricordi di chi ha conosciuto la villa da vicino e ci ha vissuto. Abbiamo avuto la fortuna di ascoltare la voce di Manuel Moscariello, che tra queste mura ha trascorso parte della sua infanzia, e in adolescenza ha continuato a frequentarne gli ambienti, essendo tuttora legato da una profonda amicizia agli ultimi abitanti della casa. Anche nella sua memoria è rimasta la nitida immagine di uno spazio di condivisione e transito:

“In molti si fermavano da noi per una notte o due: amici, ma anche viaggiatori, o hippie di passaggio col furgone. Il ricambio di ospiti era rapido e costante, appariva di continuo gente nuova. Anche tra noi inquilini si andava e veniva: i bambini mangiavano con altre famiglie, vivevano in focolari domestici diversi dal proprio, si conoscevano tante persone e per me fu un’esperienza formativa e stimolante. C’erano frequenti feste, e lo spirito di condivisione era il fondamento della vita in comune nel castello. Non ci si limitava ad abitare insieme, ricordo diversi laboratori di artigianato e di lavoro manuale, è stato molto educativo”.

Lo chiamavano, appunto, il castello, dove

“per un periodo si visse alla luce delle candele, perché fu staccata l’elettricità. Era uno scenario particolare per essere nel cuore di una città: oche da guardia al cancello, nel giardino sul retro capre e galline. Per altri aspetti era una vita normale, si andava a scuola, i genitori lavoravano. E non era tutto rose e fiori: capitavano litigi e problemi, o talvolta si fermavano a dormire persone più difficili, come tossicodipendenti e alcolisti. Quando le famiglie furono sgomberate, ebbi la sensazione che alcuni accettassero di buon grado la conclusione di un ciclo, per quanto l’esperienza avesse arricchito tutti i membri della comunità”.

Manuel ci ha anche donato alcune foto dell’epoca: sulle superfici esterne il rosso pompeiano è ancora intenso, la firma di Antonio Berté è ancora visibile su una facciata (oggi è coperta da un murale), si notano le scale interne, scorci del giardino all’inglese e il piccolo Manuel, sorridente, con una racchetta in mano.

Foto dalla collezione della famiglia Raggio (anni Novanta)

 

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